Nel 1929, il crollo della borsa di New York e la successiva gravissima crisi economica e finanziaria degli Stati Uniti segnarono un evento cruciale e storico del Novecento.
La crisi del ’29 aiuta, infatti, a comprendere i collegamenti che ci sono tra Prima e Seconda guerra mondiale, nonchè la simpatia da parte di diversi intellettuali europei e statunitensi per la Russia Sovietica, rimasta sostanzialmente immune dalla crisi, e l’ascesa al potere di Hitler in Germania, certamente favorita dall’influenza degli eventi economici statunitensi sull’economia tedesca.
Per gli Stati Uniti la crisi del ’29 rappresentò, però, anche una grande occasione per ripensare il modello di società e ricostruire un tessuto economico, politico e finanziario, senza comprimere i diritti individuali e allargando ampiamente quelli sociali.
La Grande Crisi fu soprattutto dovuta allo sviluppo asimmetrico tra l’economia statunitense e quella europea e degli altri paesi del mondo nel decennio 1919-1928 cui non corrispose un adeguato ampliamento del mercato mondiale anche a causa del periodo di ricostruzione delle economie europee, della sostanziale chiusura del mercato sovietico, dell’impossibilità di allargare i possedimenti e i mercati coloniali ormai sostanzialmente saturi.
Proprio nel Primo conflitto su scala planetaria e nelle sue conseguenze politiche, economiche e sociali risiedono le radici più profonde della crisi del 1929. Negli Stati Uniti e nei più importanti paesi europei già alla vigilia della guerra vi erano stati segnali di una crisi di sovrapproduzione, legata alla compressione dei salari reali, alla progressiva svolta finanziaria dell’economia e all’assenza di sbocchi commerciali alla produzione di beni. Se da una parte il Primo conflitto mondiale aveva rappresentato l’occasione per le potenze industriali europee di espandere i propri mercati, dall’altra aveva costituito per gli Stati Uniti un’occasione unica non solo per intervenire nel conflitto in modo rilevante sia a livello militare che politico, ma anche e soprattutto per far pesare su scala mondiale la sua enorme potenza economica e finanziaria, già consolidata tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.
Gli Stati Uniti, non avendo subito perdite rilevanti nella Prima guerra mondiale, divennero il nerbo della ricostruzione europea sia a livello commerciale che a livello finanziario. L’intervento e soprattutto i primi anni del dopoguerra permisero, infatti, agli Usa di rimandare una crisi di sovrapproduzione che era ritenuta possibile da molti analisti già prima dello scoppio del conflitto.
Il forte intervento finanziario degli Usa nella ricostruzione e nella riconversione industriale del dopoguerra spiega anche l’impatto enorme che la crisi del 1929 ebbe su tutti i paesi europei che avevano ricevuto crediti dalla nuova superpotenza di oltreoceano e su alcuni paesi latinoamericani, come Messico, Cuba, Cile e Bolivia, già largamente dipendenti dagli investimenti statunitensi.
Tra le ragioni principali della crisi del 1929 vi fu certamente la compressione dei salari, soprattutto agricoli, che limitava la capacità d’acquisto della maggioranza della popolazione statunitense, non crescendo i salari proporzionalmente alla crescita della produzione. Una crisi di sovrapproduzione di merci, dovuta anche alla ripresa dell’agricoltura e dell’industria europea che, grazie a nuovi protezionismi, non comprava più grano e merci provenienti dagli stati uniti,ma iniziava una produzione locale di determinati tipi di prodotti agricoli.
Negli anni successivi alla I guerra mondiale negli Stati Uniti, vi era stato inoltre un arricchimento veloce che, nella metà degli anni ’20, aveva fatto crescere l’idea della facilità di potersi arricchire grazie alle speculazioni finanziarie in borsa, spesso non legate a effettive attività produttive, ma all’idea che potesse esserci, un ciclo virtuoso tra finanza, investimenti e produzione. Come ben sappiamo, però, le cose non andarono così.
Il mancato controllo degli speculatori e dei giocatori di borsa (che negli Usa erano circa un milione e mezzo) e la poca voglia della Banca centrale di innalzare il tasso di sconto (l’unico intervento fu di portare il 6 agosto 1929 il tasso dal 5% al 6%) ebbero l’effetto di far continuare la speculazione finanziaria e l’ottimismo di facili guadagni per mesi in una situazione di effettivo ristagno dell’economia.
In sostanza la causa principale della crisi del 1929 fu la pretesa dei liberisti dell’epoca che il mercato avesse una capacità quasi naturale di autoregolarsi, senza alcun intervento esterno, meno che mai dello Stato.
Dalla crisi si generarono sia le politiche economiche di stampo keynesiano del Brain Trust di Roosevelt, sia il mito della capacità di sviluppo equilibrato delle economie pianificate di tipo sovietico che ebbe una grande influenza su larghe fasce di intellettuali e dell’opinione pubblica europea e americana.
La data storica fu il 24 ottobre del 1929, nella quale l’ottimismo si rivelò assolutamente infondato: furono vendute al ribasso ben 12.894.650 azioni. In meno di un mese le banche chiusero i cordoni del credito, accentuando ancor di più la crisi. Le migliaia di migliaia di società, spesso non solide, cresciute nel periodo della speculazione fallirono, le loro merci invendute si accumularono nei magazzini, i loro dipendenti vennero da un giorno all’altro licenziati. L’aspetto più preoccupante della crisi fu, infatti, l’aumento esponenziale della disoccupazione nei primi tre anni di crisi: dai 2 milioni di disoccupati del 1929, si passò a 4 milioni nel 1930, a 8 milioni nel 1931.
In Italia invece gli effetti della crisi del 1929 si inseriscono in un rallentamento generale della vita economica determinato anche dalla politica deflazionista inaugurata da Mussolini nel 1926 e definita, ‘Quota 90’. Nel 1925, si arrivò a un cambio di 150 lire per una sterlina. Mussolini, sia per contenere l’inflazione, sia per rafforzare solidità e autorevolezza del regime all’interno e all’esterno della nazione, annunciò una manovra deflazionistica fissando il cambio con la sterlina a 90 lire (‘Quota 90’). La sua attuazione fu resa possibile dalla banca statunitense Morgan, che concesse al governo italiano un prestito di 100 milioni di dollari.
Negli anni 1929-32, come in altri Stati europei, la produzione industriale italiana subì una contrazione media del 15%-25% con punte superiori al 30% nei comparti tessile, metallurgico e meccanico. Ci si adoperò per sostenere prezzi e profitti con il risultato di alimentare la disoccupazione che nel 1932-33 interessò un milione di lavoratori nel solo settore secondario. Furono ridotti gli stipendi di industria, commercio e agricoltura. Il primo dicembre 1930 fu annunciata anche la riduzione del 12% dei salari di tutti gli impiegati dello Stato. I consumi e il mercato interno si contrassero di conseguenza. Le esportazioni, già in crisi per effetto di ‘Quota 90’, furono colpite definitivamente, e si interruppe il flusso dei capitali internazionali.
Con la recessione economica il ritiro immediato dei depositi privati fece tremare banche importanti come la Banca Commerciale italiana, il Credito Italiano, Il Banco di Roma, l’Istituto Italiano di Credito Marittimo. Queste banche, nella loro natura di ‘banche miste’, avevano investito a lungo termine ingenti capitali nelle industrie ed ora dovevano fare i conti con giganteschi immobilizzi di capitale.
Il primo passo del regime fascista fu il definitivo smantellamento della ‘banca mista’ che, nata dopo la riforma bancaria del 1894, gestiva il risparmio, il credito a breve termine e finanziava le imprese con prestiti a lungo termine che, in caso di mancata restituzione, si traducevano nella possibilità della banca mista di rilevare quote azionarie delle imprese insolventi. Dal 1933 le funzioni di prestito a lungo termine insieme al portafogli di partecipazione azionaria alle imprese furono attribuite all’I.R.I., l’Istituto per la Ricostruzione Industriale. Questa acquisì, per scongiurarne il fallimento, anche la proprietà delle tre principali banche miste quali La Banca Commerciale, il Credito italiano e il Banco di Roma. All’I.R.I. fu affiancato l’I.M.I., Istituto Mobiliare Italiano, che aveva il compito di finanziare l’industria a medio e lungo termine attraverso l’emissione di obbligazioni. La crisi del 1929 segnò, con la nascita della banca pubblica e della partecipazione statale, il mondo economico ed industriale italiano per i successivi 60 anni: dallo Stato liberale si passò allo Stato imprenditore e banchiere, che diede vita al capitalismo italiano. Entrava così nel flusso economico del paese l’assistenzialismo di Stato, con il potere politico non arbitro super partes, ma giocatore attivo.