L’economista statunitense Paul Krugman, oltre ad essere stato vincitore del premio Nobel nel 2008 ed editorialista del celebre quotidiano americano, il New York Times, vanta anche una prestigiosa attività in ambito accademico, possedendo nel suo curriculum cattedre all’Università di Princeton, negli Usa, a Yale, al Mit, all’Università di Berkeley, alla London School of Economics e all’Università di Stanford.
Ha lavorato poi per un anno, dal 1982 al 1983, nel Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca, durante l’amministrazione Reagan.
Recentemente, l’intellettuale liberal, il critico contro l’establishment, l’oppositore alle guerre di G.W.Bush è stato nuovamente vicino alle vicende legate alla Casa Bianca, anche se sotto altre vesti, schierandosi dalla parte di Obama e sostenendo l’attuale Presidente, in un momento in cui pare sia difficile trovare qualcuno negli Stati Uniti che sia soddisfatto, o anche solo contento, del suo operato.
Recentemente il keynesiano Krugman si è fatto notare per un suo articolo dal titolo “La disfatta degli economisti” in cui scrive: “quasi nessuno ha pronosticato la crisi del 2008, ma probabilmente è un errore scusabile in un mondo complesso. La responsabilità più schiacciante va alla convinzione ampiamente diffusa allora tra gli economisti che una crisi del genere non potesse verificarsi”.
Parole che risuonano come una forte crisi alla visione neoclassica.
La soluzione anticrisi che invece Krugman propone,infatti, è di matrice del tutto opposta, ovviamente keynesiana, partendo da una similitudine con la crisi degli anni Trenta: anche in quel periodo ci fu una prima recessione, successivamente una ripresa inadeguata e poi la ricaduta. I tassi di disoccupazione reali attuali sono molto vicini a quelli di allora e se si considera il numero di disoccupati a lungo termine, che in America restano oltre i 4 milioni, siamo ai livelli degli anni Trenta.
Il problema quindi va combattuto, come allora, con un intervento statale ed occorre che i governi spendano di più, non di meno, soprattutto quando la domanda privata è insufficiente.
Riguardo all’eurozona poi, numerosi sono gli attacchi che Krugman lancia alle politiche di austerity della Germania nei suoi editoriali, evidenziando come esempio negativo l’Irlanda, uno dei paesi più virtuosi nell’applicare le politiche imposte dal governo tedesco e sottolineando allo stesso tempo come al contrario i paesi asiatici, dalla Cina alla Corea del Sud, che hanno manovrato con energia le leve della spesa pubblica, hanno invece evitato la crisi.
Mentre, per quanto riguarda il livello del debito pubblico, di molto superiore al livello del Pil, l’economista afferma come, contrariamente a quanto si creda, in tempi di depressione le politiche di austerity aggravano il problema, accentuando in primis la recessione, facendo di conseguenza cadere il gettito fiscale. In questo modo, in seguito ai tagli, il debito aumenta anziché diminuire.
Simil problema, simil soluzine dunque. Questa è la proposta di Krugman.
OSPECA
FABIO MORELLI