ALCUNE STIME SULL’ECONOMIA SOMMERSA IN ITALIA

C’è una classifica che vede l’Italia seconda potenza europea dietro la Germania. Ma non è esattamente una performance di cui andare fieri: la graduatoria in questione riguarda infatti il valore dell’economia sommersa che, qui da noi, si attesta sui 333 miliardi contro i 351 miliardi della Repubblica federale. Maggiore rispetto a quello di Berlino è però, purtroppo, il contributo del nostro «nero» al prodotto interno lordo nazionale. Numeri che escono dall’ultimo numero monografico di «Rassegna Economica», la rivista internazionale di economia fondata dal Banco di Napoli e curata dal centro studi Srm Intesa Sanpaolo. A livello europeo il contributo dell’economia sommersa al Pil cala dal 22,4% del 2003 al 16,5% del 2013, mentre nella media dell’area euro la performance si abbassa al 15 per cento. Nonostante le operazioni di contrasto messe in atto da magistratura e forze dell’ordine il peso del fenomeno sul nostro Pil è stimato tra il 17 e il 21%. Nello Stivale, inoltre, c’è la piaga dell’economia illegale/criminale (da sommare a quella sommersa) che esprime una valore compreso tra il 9 e l’11% del Pil. Ovviamente questi rapporti di forze cambiano se si prende in considerazione il Sud. Qui il sommerso incide per il 27% sul Pil e l’economia illegale/criminale per circa l’11 per cento. La Banca D’Italia ha aggiornato le stime sull’economia non rivelata nei dati ufficiali, in precedenza fissate in 150 miliardi di euro per il riciclaggio (economia criminale) e 270 per il sommerso (120 miliardi di sola evasione fiscale), cui si aggiungevano i costi della corruzione, individuati sui 50-60 miliardi. Secondo questo studio, l’economia inosservata (evasione più crimine) rappresenta il 31,1% del Pil. Il dato si riferisce al quadrimestre 2008-2012 e si basa sull’analisi del flusso di denaro in tale quadriennio; in valore assoluto l’economia che sfugge alle statistiche ufficiali sfiora i 490 miliardi di euro, 290 dei quali dovuti all’evasione fiscale e contributiva e circa 187 all’economia criminale. Il paper della Banca d’Italia ha fornito per la prima volta una stima della parte di economia dovuta alle attività vietate dalla legge. In particolare l’analisi ha valutato le transazioni irregolari relative a prostituzione e traffico di stupefacenti (in pratica le attività illegali volontarie); evitando invece quelle legate a violenza (come le estorsioni) e quelle realizzate senza accordo (come i furti); nel quadriennio 2008-2012 il 12,6% dell’economia italiana era legata a chi viola la legge commettendo reati penali. La crisi economica del 2007 è stata la causa che ha favorito la crescita dell’economia non ufficiale, balzata di un buon 6.5% del Pil (evasione +3,5%, criminalità +3%), il sommerso globale è passato dal 24,6% al 31,1% del Pil. Il nero fiscale è salito dal 15% al 18,5% del Pil, quello criminale dal 9,6% al 12,6%. La crisi ha provocato non solo un deciso rallentamento nei consumi e negli investimenti, ma soprattutto il deterioramento della fiducia delle imprese e delle aspettative della famiglie: è cresciuto il ricorso al lavoro nero e, di conseguenza, anche il maggior rischio di slittamento dentro l’economia illegale. Secondo una simulazione se l’Italia riuscisse ad abbassasse il proprio livello di economia sommersa allineandosi ai livelli della media dell’area euro (ossia a un dato del 15% del Pil) si otterrebbe un’emersione di gettito fiscale e contributivo di circa 40 miliardi. Con logici effetti benefici sulle casse dello Stato e una conseguente crescita del Pil stimata in circa 10 miliardi grazie agli effetti positivi indotti sull’economia «sana». Giunti a tal punto è bene porre l’attenzione sulle dimensioni dell’economia sommersa in Italia, prendendo l’avvio dal metodo di rilevazione utilizzato, nell’ambito della contabilità nazionale italiana, dall’Istat, soffermandosi, altresì, sull’incidenza che il livello di economia sommersa ha sul PIL. L’obiettivo “emersione” in Italia è stato inizialmente perseguito tramite i cosiddetti “contratti di riallineamento”, che hanno interessato tutto il periodo degli anni ’80 e ’90, seguiti dai “programmi di emersione”, introdotti con la legge n.383 del 2001. Con la legge n. 484 del 1998, si è cercato, altresì, di affrontare il problema del sommerso anche a livello locale, istituendo appositi organi con competenza territoriale (comitato nazionale per l’emersione del lavoro non regolare e delle commissioni regionali e provinciali per l’emersione del lavoro non regolare), anche al fine di fornire assistenza alle imprese aderenti ai contratti di riallineamento. Alle misure “dirette”, rappresentate dai contratti di riallineamento e dai programmi di emersione, si sono aggiunte quelle “indirette”, che consentono di raggiungere obiettivi che vanno nella stessa direzione delle prime, atteso che sono finalizzate a creare nuove opportunità di crescita del sistema economico, a promuovere lo sviluppo locale, a concedere incentivi che favoriscono l’inserimento nel mondo del lavoro, nonché la nascita nuove imprese.
La lotta al sommerso, quindi, richiede altri interventi pubblici che, seppure non forniscono ritorni immediati, hanno maggiori possibilità di successo. Si fa riferimento, in generale, all’affermazione della legalità e al controllo del territorio, finalizzati alla sconfitta della concorrenza sleale, alla crescita del lavoro regolare, al risanamento del bilancio, al consolidamento della democrazia e della sovranità popolare.
L’intervento pubblico, tuttavia, non potrà mai andare oltre un certo contenimento quantitativo; le regole, da sole, hanno un valore assai limitato se non sono sostenute da una convinzione etica diffusa e profonda.
La possibilità di contrastare le conseguenze negative del sommerso è, quindi, strettamente legata all’integrazione degli interventi regolamentari ed educativi. L’origine dei contratti di riallineamento può farsi risalire ai primi anni ’80, quando nella provincia di Bari vengono stipulati degli accordi aziendali in cui le rappresentanze sindacali, al fine di scongiurare la minaccia di chiusura di alcune aziende, si rendono disponibili, attraverso la stipula di transazioni relative ai contratti collettivi nazionali, ad agevolare la riemersione delle imprese irregolari. I contratti di riallineamento, quindi, trovano fondamento sull’idea di favorire il recupero delle imprese irregolari attraverso un accordo in cui aziende, sindacato e attori pubblici si impegnano per la graduale fuoriuscita dalla condizione di irregolarità fiscale e contributiva delle prime. Si tratta, nella sostanza, di pervenire alla graduale applicazione delle regole contrattuali nazionali attraverso aumenti retributivi scaglionati lungo un determinato arco di tempo, attuando, però, immediatamente la parte normativa. In buona sintesi, i sindacati accettano di derogare, temporaneamente, alle norme fondamentali contenute nei ccnl, a condizione che, in tempi certi e con modalità trasparenti, venga ripristinata la totale legalità. Le aziende, a loro volta, si impegnano a porre fine all’elusione delle norme legali e contrattuali, chiedendo come contropartita, benefici di natura fiscale e contributiva. Lo Stato, dal canto suo, trova la ragione di questi interventi nella lotta all’economia sommersa che, oltre a rappresentare un obiettivo di ordine pubblico, costituisce una misura di politica fiscale e del lavoro, con l’obiettivo di salvaguardare i livelli occupazionali in territori perennemente afflitti dalla mancanza di sviluppo economico e produttivo. In tale prospettiva, al fine di rendere più efficace la lotta per l’emersione dell’economia non regolare, con la legge n. 448/1998 si è cercato di affrontare il problema anche a livello locale, mediante l’istituzione del comitato nazionale per l’emersione del lavoro non regolare, delle commissioni regionali e provinciali e dei tutori per l’emersione. Al Comitato nazionale per l’emersione del lavoro irregolare, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sono state attribuite funzioni di analisi e di coordinamento delle iniziative. La costituzione di un organismo, con un’articolazione territoriale regionale e provinciale, espressamente preposto alla gestione del fenomeno sommerso, è da accogliersi favorevolmente in quanto rappresenta un modo più razionale di affrontare il problema. La precedente soluzione, infatti, era rigidamente circoscritta a livello di rapporti contrattuali tra le parti, questa, invece, rientra nel contesto più ampio delle politiche per l’emersione. Al Comitato sono attribuiti i seguenti compiti: attuare le iniziative ritenute utili a conseguire una progressiva emersione del lavoro irregolare (anche mediate campagne di sensibilizzazione e di informazione); valutare i risultati conseguiti dai suoi organismi (commissioni regionali e provinciali) dislocati sul territorio; esaminare le proposte contrattuali di emersione istruite dalle commissioni locali prima della trasmissione al Cipe (art. 78 l. n. 448/1998). In merito al funzionamento interno, il Comitato, che riceve direttive dal presidente del consiglio dei ministri cui risponde e riferisce, si configura come organo tecnico con funzioni di analisi, elaborazione, proposta, promozione, attuazione e coordinamento delle iniziative in materia di emersione. Con il citato art. 78, sono state istituite, presso le camere di commercio, le commissioni regionali e provinciali per l’emersione del lavoro non regolare, alle quali sono stati attribuiti compiti di analisi del lavoro irregolare a livello territoriale, di promozione, di collaborazioni e intese istituzionali, di assistenza alle imprese che stipulino contratti di riallineamento.
La ragione d’essere delle commissioni territoriali è quella di rappresentare -attraverso l’esercizio di una funzione di indirizzo e coordinamento dell’azione delle istituzioni, delle parti sociali e della società civile- il punto di riferimento delle attività che riguardano lo sviluppo locale e l’emersione. Le commissioni regionali e provinciali possono attribuire l’incarico di stipulare contratti di riallineamento ad un tutore che, a tale fine, dovrà ottenere il parere favorevole da parte del Comitato nazionale di emersione che provvederà a verificarne, periodicamente, l’attività svolta, segnalandone l’esito alla rispettiva commissione per l’adozione di eventuali provvedimenti. La figura del tutore, quale supporto alle imprese, risulta particolarmente importante, atteso che le provate competenze professionali e la conoscenza del territorio di riferimento gli consentono di fornire all’impresa idonea assistenza. Insomma secondo i dati di Banca d’Italia sopra citati, tenendo conto che l’economia legale italiana è per quasi la metà di orbita pubblica, si desume che circa un terzo del fatturato aggregato del settore privato è nero! La domanda è: continuare a tassare ancora il settore pubblico o sconfiggere questa piaga sociale “dell’economia nera” del settore privato?

OSPECA
MICHELE FASCETTI

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