IL COSTO DEL LAVORO IN ITALIA

Il costo del lavoro è uno dei costi tipici della produzione in un’impresa. E’ dato dalla somma di cinque componenti: il salario netto, i contributi sociali obbligatori e le imposte a carico del dipendente e dell’impresa.

2009 2010. 2011 2012

Italia. 27.223. 27.983. 28.356 28.593

Germ. 32.311 33.068 34.332 35.223

Spagna 25.801. 26.394. 26.826. 26.911

Francia 33.090 33.393. 34.735. 35.441

La prima cosa che si nota è che l’Italia ha i costi del lavoro complessivi più bassi tra le maggiori nazioni europee, dietro solo alla Spagna. Inoltre, sempre considerando i paesi più rappresentativi dell’UE, l’Italia presenta gli oneri derivanti dal cuneo fiscale tra i più alti, insieme alla Francia, con il 47,6% (dati OCSE). Il peso maggiore è a carico del datore di lavoro (24,3%) mentre il restante 23,3% è per i dipendenti.
Anche altri paesi come la Danimarca, la Finlandia e il Belgio hanno una tassazione sul lavoro molto alta ma possono offrire una qualità di servizi pubblici ben superiore a quella italiana. Inoltre nel periodo 2003-2012 i paesi europei hanno incominciato ad alleggerire il carico fiscale; al contrario l’Italia lo ha aumentato dell’1%.

Nel grafico seguente elaborato dall’OCSE rappresenta, dal 1995 al 2012, il costo del lavoro unitario del singolo paese rapportato alla posizione competitiva nei confronti dei suoi partners commerciali. Un incremento dell’indice è causato dall’erosione della posizione di competitività mentre un calo corrisponde ad un aumento della competitività. Quest’ultimo caso si può registrare in un abbassamento del salario, ad un aumento della produttività o a un deprezzamento nel tasso di cambio della moneta.

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E’ subito evidente l’andamento della curva corrispondente alla Germania: l’indice si è sempre mantenuto basso, grazie anche all’alta produttività del lavoro. Inoltre con la riforma del mercato del lavoro interno di Schröder, detta Agenda 2010, l’indice cala ulteriormente. Infatti la “ricetta” da un lato facilitava l’ingresso nel mercato del lavoro con salari più bassi e contratti precari, dall’altro semplificava la possibilità di licenziare da parte delle imprese. La Germania è stata l’unica nazione europea a realizzare un aumento della produttività del lavoro in una situazione di “labour-hoarding”, ovvero di conservazione dei posti di lavoro. Oggi in Germania l’ammontare delle ore lavorate è lo stesso di cinque anni fa. Ciò anche per merito della flessibilità assicurata dalle riforme Hartz si è rivelata decisiva, soprattutto in termini di semplicità di funzionamento e di sostenibilità economica e sociale.

Un altro spunto di riflessione è offerto dall’esperienza inglese. Dal 1992 al 2008 il Regno Unito ha registrato una continua crescita dell’economia e si sono creati quattro milioni di nuovi posti di lavoro. Tuttavia, già prima della crisi, quasi cinque milioni di persone ricevevano sussidi di disoccupazione. L’eterogeneità e la moltitudine delle tipologie di sussidi erogati dallo stato hanno indotto gli assistiti a non lavorare.
Tale inefficienza è stata combattuta con la semplificazione del sistema di welfare e l’istituzione di agevolazioni per chi assume un assistito.

La lezione spagnola non ha molto di miracoloso. L’economia iberica ha trascorso un momento caratterizzato dal cosiddetto “labour-shedding” consistente nella perdita massiccia di posti di lavoro. Il recupero di efficienza tra il 2008 e il 2013 è stato ottenuto attraverso un calo drammatico dei livelli generali di occupazione. Il sistema ha aumentato la produttività, pur con un costo sociale assai ingente. Dunque in Spagna hanno operato tagli e riorganizzazioni.

Invece la competitività italiana si è andata compromettendo con il passare degli anni e si registrano dei timidi miglioramenti dal 2009, anche per via del “decreto Brunetta” riguardante l’incremento della produttività e dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni.
D’altra parte solo in Italia produttività, quantità di lavoro e di prodotto arretrano simultaneamente. Dietro questo meccanismo al ribasso c’è l’effetto della deindustrializzazione, soprattutto manifatturiera, che ha determinato un deterioramento qualitativo. Dall’inizio della recessione del 2008 il valore aggiunto manifatturiero in volumi, è sceso del 18% esattamente, il doppio dei nove punti di caduta del PIL reale.
Come risolvere il problema legato al costo del lavoro e alla sua produttività? Certamente sarà necessario investire nei servizi, nella formazione del capitale umano e nella ricerca. Occorrerà ridurre le inefficienze dell’amministrazione pubblica, del sistema di welfare e snellire la burocrazia che asfissia e rallenta l’iniziativa imprenditoriale in Italia.

OSPECA
MAURO MARTINO

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