Karl Marx nasce a Treviri nel 1818 e fin dalla prima infanzia, grazie al padre, avvocato di grande cultura, riceve un’educazione di stampo liberale. Nel 1835 si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bonn e successivamente all’Università di Berlino. Entrato in contatto con il pensiero filosofico di Hegel, Marx abbandona la Giurisprudenza per la Filosofia e si laurea all’Università di Jena.
La caratteristica fondamentale del pensiero di Marx è che non può essere ridotto ad una dimensione meramente filosofica, sociologica o economica, si tratta piuttosto di un’accurata analisi globale della società e della storia. Non è sicuramente un caso che il marxismo non possa collocare in alcuno dei comparti tradizionali delle scienze borghesi. Inoltre, a differenza degli altri filosofi, Marx ha il merito di aver perseguito per tutta la sua vita l’ideale dell’unione tra la sua teoria e la prassi, mediante l’edificazione di una nuova società, lontana dal concetto dello Stato Liberale e dall’economia politica borghese di Smith e Ricardo.
Secondo Marx, i limiti dell’economia politica borghese sono essenzialmente due: “eternizzare” il sistema capitalistico, non ponendolo come uno fra i tanti sistemi economici possibili, ma come il modo immutabile e razionale di produrre e ripartire la ricchezza, e considerare la proprietà privata come “postulato base” di ogni possibile ricerca economica. Il capitalismo, secondo Marx, si basa su un’insita struttura contraddittoria basata sull’opposizione tra capitale (borghesia) e lavoro salariato (proletariato), ovvero ciò che viene definito “alienazione”.
Per mezzo di Marx, l’alienazione cessa di essere un fenomeno puramente introspettivo, ma consiste in un fatto reale di natura socio-economica, coincidente con la condizione del salariato all’interno del sistema capitalistico. Il lavoratore è alienato rispetto:
• al prodotto del proprio lavoro, che gli viene sottratto;
• alla propria attività, che diventa uno strumento per il profitto del capitalista;
• alla propria essenza, l’uomo è predisposto per il lavoro creativo, non per quello ripetitivo e/o forzato;
• al prossimo, il lavoratore diffidando dal capitalista finisce per porsi in modo conflittuale con l’umanità intera.
Secondo Marx, la causa di questo meccanismo di alienazione risiede nella proprietà privata dei mezzi di produzione, in virtù della quale il capitalista (possessore di tali mezzi) può utilizzare il lavoro dei salariati per accrescere la propria ricchezza, ricavando un profitto. Se l’alienazione deriva da un processo basato sulla proprietà privata, la disalienazione si identifica con l’abolizione della stessa, cioè con il comunismo.
Il saggio“Il capitale” non è solo il capolavoro di Marx, ma piuttosto il testo chiave del suo pensiero. Il sottotitolo dell’opera Critica dell’economia politica sottolinea la forte contrapposizione del filosofo all’economia classica, infatti, ciò che lo differenzia di più da economisti come Ricardo o Smith è il suo metodo storicistico-dialettico: Marx crede fortemente che non esistano leggi universali dell’economia e che ogni agglomerato sociale abbia caratteristiche singolari e leggi storiche specifiche che valgono solo e soltanto in quel determinato contesto.
La prima parte dell’opera è incentrata sull’analisi del fenomeno “merce”. Una merce in quanto tale deve possedere un valore d’uso, ossia deve essere utile al fine del soddisfacimento di determinati bisogni e un valore di scambio, che garantisca a ciascuna merce di poter essere scambiata con le altre. Quest’ultimo valore dipende dalla quantità di lavoro socialmente necessaria per produrre la merce in oggetto a prescindere dall’abilità del singolo produttore (il filosofo si riferisce alla produttività sociale media di un dato periodo storico).
Il prezzo della merce non si identifica del tutto con il suo valore, perché dipendente da altri fattori come ad esempio la scarsità della merce in questione. Il prezzo può superare o essere minore del valore reale di una determinata merce, quindi il prezzo non coincide con il valore, ma quest’ultimo ne è una determinante. Marx è convinto del fatto che alla base di tutto ciò si trovi il lavoro, perciò ritiene una forma di feticismo considerare le merci come delle entità aventi valore di per sé e non come il prodotto dell’attività umana e di dati rapporti sociali (c.d. Feticismo delle merci).
Secondo Marx, la peculiarità del capitalismo risiede nel fine della produzione: la produzione capitalistica non è finalizzata al consumo ma all’accumulazione di denaro. Se il ciclo economico prevalente nelle società pre-borghesi può essere descritto dalla formula M.D.M. (merce → denaro → merce, ossia vendere per comprare), il ciclo economico capitalistico sarà descritto dalla formula D.M.D’. (denaro → merce → più denaro), questo perché l’obiettivo del capitalista è quello di ottenere più denaro dalla vendita di una merce, più di quanto ne abbia investito nel processo di produzione della stessa. È evidente che tra il primo e l’ultimo valore D del processo non c’è alcuna differenza qualitativa, ma c’è una differenza quantitativa data dall’incremento della quantità di denaro che ricava il capitalista dalla vendita della merce, questo incremento è detto plusvalore. All’origine del plusvalore vi è il fatto che il capitalista ha la possibilità di comperare la forza-lavoro pagandola con il salario, che permette all’operaio di procurarsi i mezzi necessari per vivere, sostentarsi e lavorare produttivamente. Tuttavia l’operaio, che altro non è se non la fonte del plusvalore, è in grado di produrre un valore molto più grande di quello che gli corrisponde il capitalista sotto forma di salario. Il plusvalore discende quindi dal pluslavoro dell’operaio ed è l’ammontare del valore da lui gratuitamente offerto al capitalista. Tutto questo avviene perché il capitalista possiede i mezzi di produzione, mentre l’operaio possiede esclusivamente la sua energia lavorativa ed è costretto a “vendersi” in cambio del salario.
Per il capitalista, dal plusvalore deriva il profitto, ma le due grandezze non hanno lo stesso valore. Per poterle definire è necessario chiarire la differenza tra capitale variabile, ossia il capitale mobile investito nei salari, e capitale costante, coincidente con il capitale investito negli impianti, nei macchinari e in tutto ciò che risulta essere necessario per intraprendere o migliorare la produzione.
Il plusvalore, come si è già detto, dipende dal pluslavoro dell’operaio ed è quindi in relazione al capitale variabile. Il saggio del plusvalore si esprime in percentuale ed è dato dal rapporto:
Il saggio del profitto non coincide con quello del plusvalore, si esprime sempre in percentuale, ma è dato dal rapporto:
È evidente, data la grandezza del denominatore, che il saggio del profitto è sempre minore rispetto al saggio del plusvalore ed esprime in modo più realistico il guadagno del capitalista. Essendo D.M.D’. il ciclo economico capitalistico, il fine strutturale degli attori di questo sistema è quello di perseguire la maggior quantità possibile di plusvalore. La società capitalistica risulta quindi essere retta dalla logica del profitto privato, a discapito dell’interesse collettivo.
Marx ha identificato due vie di accrescimento del plusvalore e quindi del profitto: il plusvalore assoluto e quello relativo. Il capitalista potrebbe cercare di accrescere i profitti aumentando la giornata lavorativa degli operai, ma non è una soluzione ottimale in quanto dopo un certo numero di ore la forza-lavoro dell’operaio diventa sempre meno produttiva, Marx definisce questo tentativo di prolungamento della giornata lavorativa “plusvalore assoluto”. Per il capitalista è meglio cercare di ridurre quella parte di giornata lavorativa necessaria a reintegrare il costo del salario e questo è il “plusvalore relativo”. Questa seconda strada può essere perseguita ad una condizione, cioè che nonostante la diminuzione delle ore lavorative, la produttività sia sempre maggiore, ecco perché è una necessità del capitalista introdurre sempre nuovi e più efficienti metodi nel processo produttivo.
A questo punto Marx definisce due possibili inconvenienti strutturali del capitalismo causati proprio dal continuo bisogno di rinnovamento tecnologico. Con l’avvento della grande industria la produttività aumenta, generando però il fenomeno ciclico delle crisi di sovrapproduzione. Crisi causate, a differenza di quelle del passato, dalla sovrabbondanza di merci. Ciò è dovuto alla c.d. “anarchia della produzione”, in base alla quale le imprese concorrono nei settori più floridi che garantiscono più profitto, finendo col dare luogo ad un eccesso di produzione rispetto alle reali esigenze del mercato.
Non solo, il continuo impiego da parte dei capitalisti di nuove tecnologie nei processi produttivi, comporta un altro inconveniente, chiamato da Marx “caduta tendenziale del saggio di profitto”: essendo il capitale investito in salari (capitale variabile) l’unica fonte di plusvalore, l’aumento della composizione del capitale investito in impianti e rinnovamento tecnologico (capitale costante) dà come risultato dei profitti progressivamente decrescenti in proporzione agli investimenti complessivi. Sulla base di questa legge Marx teorizza il concetto di rendimento decrescente strutturale del capitalismo.
Marx conclude la sua analisi della società borghese e della sua evoluzione ipotizzando che, sommandosi i fenomeni dell’anarchia produttiva, delle crisi cicliche di sovrapproduzione e della caduta tendenziale del saggio di profitto, si avrà come effetto una diminuzione costante dei magnati del capitale e una massa sempre più grande di salariati, occupati e disoccupati. La fine del capitalismo viene immaginata dal filosofo come uno scenario dualistico: da un lato una minoranza di capitalisti dall’ingente ricchezza e dall’immenso potere, dall’altro lato una maggioranza proletaria sfruttata e in grave difficoltà.
OSPECA
FRANCESCA PATARA