Negli ultimi mesi si è riaffacciata nel discorso pubblico una domanda che più volte ci si è posti: se
in Italia sia realmente possibile una politica riformista o, invece, non faccia parte del codice
genetico del nostro Paese.
In realtà, c’è stata una stagione, negli anni 50, in cui il riformismo è stato di casa anche da noi, ma
rimase una sorta di parentesi.
Che le avessero sollecitate gli amministratori americani del Piano Marshall o promosse De Gasperi
e la sinistra della Dc, in funzione del cosiddetto “terzo tempo sociale”, sta di fatto che le misure
varate dai governi neo-centristi s’ispiravano a un indirizzo volto a coniugare riformismo economico
ed equità sociale.
Tutto ciò si tradusse, in pratica, nel “piano Fanfani” per l’edilizia popolare, nel Fondo per
l’addestramento professionale dei lavoratori, nella riforma agraria, nella legge istitutiva della Cassa
del Mezzogiorno, nella riforma Vanoni sulla perequazione fiscale in senso progressivo, nella
graduale liberalizzazione degli scambi, in una nuova legislazione per incentivare gli investimenti
esteri, nella creazione degli Istituti regionali di Mediocredito a sostegno delle Pmi, nell’estensione
del sistema pensionistico alle categorie autonome.
L’inizio del cambiamento può essere identificato con la legge n. 264/49 (conosciuta come legge
Fanfani) che predisponeva una riforma complessiva del sistema del collocamento fondata sul
monopolio pubblico sul collocamento: la competenza esclusiva del collocamento venne affidata al
Ministero del Lavoro, il quale avrebbe operato sul territorio attraverso la rete degli Uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione (UPLMO);
Il collocamento poteva avvenire in 3 modi: « richiesta o chiamata numerica»: il datore di lavoro
indicava il numero, la categoria e la qualifica professionale dei lavoratori di cui aveva necessità
all’UPLMO di competenza territoriale, il quale provvedeva all’avviamento dei lavoratori sulla base di alcuni criteri; « richiesta o chiamata nominativa»: scelta diretta da parte del datore di lavoro del
personale da assumere, vincolata alle aziende con meno di cinque dipendenti; per una quota parte dei lavoratori in caso di assunzioni numericamente significative; per il personale impegnato in mansioni di vigilanza o custodia; « assunzione diretta»: solo nei casi di assunzione di un parente o affine; di assunzioni tramite concorso pubblico; di personale con funzioni direttive o destinato a servizi familiari; nel « passaggio diretto» da un’azienda all’altra.
Fanfani era da sempre stato attento anche alla questione abitativa, suo fu il Piano Ina – Casa che
venne finanziato attraverso un sistema misto che vide la partecipazione dello Stato, dei datori di
lavoro e dei lavoratori dipendenti. Questi ultimi, attraverso una trattenuta sul salario mensile –
l’equivalente di una sigaretta al giorno, come recitava la propaganda dell’epoca – furono in grado di
aiutare i compagni più bisognosi. Il piano faceva appello alla solidarietà di tutti i lavoratori perché
l’operaio che lavora e guadagna la sua giornata dia la possibilità, mediante un suo contributo, ad
altri che non lavorano (colpiti non solo nel fisico per la mancanza del pane quotidiano, ma anche
nello spirito) di ritornare nel consorzio civile a produrre e a guadagnare.
Il piano, dunque, fu interpretato e proposto in una duplice chiave: come una manovra orientata a
rilanciare l’economia e l’occupazione, costruendo case economiche, ma anche come un dispositivo di “carità istituzionalizzata” su scala nazionale, di partecipazione solidaristica di tutte le componenti sociali verso i bisogni dei più poveri. I tempi furono rapidissimi: in 3 mesi i cantieri aperti furono 650. Ogni settimana vennero realizzati 2.800 alloggi. L’iniziativa, criticata dall’America, dopo 14 anni ha dato lavoro a oltre 600.000 lavoratori per la costruzione di ben 350.000 alloggi.
Il passo successivo fu il cosiddetto “Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel
decennio 1955-64” dell’Onorevole Vanoni.
I quattro obiettivi che il piano intendeva raggiungere erano:
– la creazione di quattro milioni di posti di lavoro durante il decennio 1955-64;
– la riduzione dello squilibrio esistente tra Nord e Sud;
– il pareggio della bilancia dei pagamenti da ottenere attraverso un incremento delle esportazioni;
– la ristrutturazione della distribuzione delle forze di lavoro.
Nonostante gli ostacoli di natura politica che limitarono l’attuazione del piano e nonostante il fatto
che esso non fosse mai stato tradotto in legge in senso formale e sostanziale, almeno tre dei suoi
obiettivi furono raggiunti.
In in quel periodo, infatti, il reddito aumentò ad un tasso superiore al 5%; all’inizio del 1962 fu
raggiunta la piena occupazione (in realtà favorita da un imponente fenomeno di emigrazione) e
l’andamento della bilancia dei pagamenti si mostrò molto favorevole. .
Il modello macroeconomico sottostante allo Schema Vanoni può essere così riassunto:
• per raggiungere il duplice obiettivo di una crescita equilibrata e di piena occupazione
(conseguendo anche l’equilibrio della bilancia dei pagamenti) è necessario creare 3,2 milioni di
nuovi posti di lavoro localizzati soprattutto nel Mezzogiorno;
• per creare 3,2 milioni di nuovi posti di lavoro è necessario che il reddito nazionale cresca a un
tasso medio annuo del 5%;
• per incrementare il reddito nazionale a un tasso medio annuo del 5% è necessario che il tasso di
occupazione aumenti del 2% e la produttività del lavoro del 3%;
• per incrementare il tasso di occupazione e la produttività del lavoro è necessario che la quota degli
investimenti rispetto al reddito nazionale aumenti dal 21% (del 1955) al 25% (nel 1964);
• infine, per incrementare la quota degli investimenti sul reddito nazionale è necessario che aumenti,
nella stessa proporzione, la quota del risparmio sul reddito.
In sostanza: servono più risparmi per finanziare maggiori investimenti. Senza il risparmio
necessario a finanziare i maggiori investimenti, vi sarebbe un rallentamento nella crescita
economica e un prevedibile aumento della disoccupazione e del divario Nord-Sud.
Lo Schema delinea una strategia di politica economica. Il governo dovrebbe, innanzitutto,
procurarsi mediante prestiti esteri il risparmio indispensabile per attivare il processo di sviluppo;
dovrebbe poi, insieme con le imprese pubbliche, localizzare una parte degli investimenti nel Sud;
dovrebbe infine, attraverso la politica dei redditi e la politica fiscale, favorire un graduale
innalzamento della propensione al risparmio dal 21% al 25%. I consumi aumenterebbero in termini
assoluti ma dovrebbero ridursi in rapporto al reddito.
Queste furono le basi dello sviluppo italiano. In questo periodo l’Italia riuscì a raggiungere tre
obiettivi, che il più delle volte risultano incompatibili: investimenti produttivi elevati, stabilità
monetaria, equilibrio della bilancia dei pagamenti. Fu quindi possibile una rapida
industrializzazione senza inflazione e senza disavanzi nei conti con l’estero. Nel contempo, il
problema della disoccupazione aveva trovato due diverse soluzioni: è noto che, quando in
un sistema economico coesistono settori caratterizzati da differenti livelli di produttività e di salari,
possono verificarsi trasferimenti di lavoratori in eccesso dal settore tradizionale ( con produttività
marginale quasi nulla – settore agricolo) verso il settore più dinamico (quello industriale) senza far
lievitare significativamente i salari unitari e consentendo, invece, un incremento dei profitti che,
attraverso l’impulso agli investimenti, alimentano una sorta di circolo virtuoso della crescita. La
soluzione alternativa era stata quella dell’emigrazione, soprattutto verso i paesi europei.
Si spiegherebbe così anche la crisi che si è registrata in Italia nella prima metà degli anni sessanta,
attribuita proprio all’esaurirsi della forza lavoro in eccesso. Fino agli inizi degli anni sessanta
l’incremento medio dei salari era stato, infatti, inferiore a quello della produttività, anche se la quota
di partecipazione dei redditi da lavoro al prodotto nazionale netto era aumentata tra il 1950 e il 1960
dal 50,8% al 55,1%. Sdrammatizzato il problema della disoccupazione, il capitalismo italiano
poteva dedicarsi all’investimento intensivo nel settore industriale, sviluppare le esportazioni,
inserire l’economia nazionale nel contesto europeo.
Diversi modelli interpretativi sono stati proposti per individuare quale fu il fattore trainante dello
sviluppo economico sperimentato. Non ci sono dubbi nell’attribuire alle esportazioni un ruolo
centrale: in questo periodo si verificò un’accelerazione eccezionale nella crescita del reddito, di tipo
export led, trainata dalla domanda estera e quindi dalle esportazioni.
Un’altra conseguenza dell’apertura esterna dell’economia fu uno sviluppo differenziato dei settori
industriali, che portò a parlare di dualismo della nostra struttura produttiva; si individuava infatti un
settore volto alle esportazioni che, per essere competitivo sui mercati internazionali, doveva
ottenere un ritmo di crescita della produttività molto veloce ed adottare tecniche di produzione
tecnologicamente avanzate per poter offrire sul mercato prodotti qualitativamente elevati a prezzi
concorrenziali; e un altro settore “stagnante” che rispondeva solo alle richieste della domanda
interna, senza particolari esigenze di efficienza, con la possibilità di reclutare manodopera
scarsamente qualificata da impiegare con dotazioni di capitale molto ridotte e livelli di produttività
molto bassi. Questo fenomeno finì con l’accentuare le forme di dualismo territoriale, data la
maggiore concentrazione dei primi nelle regioni centro-settentrionali. I settori esportatori, peraltro,
adottando tecnologie di produzione avanzate, creavano occupazione in maniera limitata. Il
persistere della disoccupazione riduceva la forza sindacale, conteneva la pressione salariale e
determinava una caduta progressiva della quota dei salari sul reddito nazionale. A sua volta ciò
riduceva le pressioni sui prezzi, sia dal lato della domanda sia da quello dei costi. La stabilità
monetaria favoriva le esportazioni e facilitava l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Si creava
così un circolo virtuoso di sviluppo basato su elevata crescita della produttività, dinamica ridotta dei
salari, aumento dei profitti, prezzi stabili, miglioramento della competitività, crescita delle
esportazioni, crescita della domanda, del reddito e della produttività.
Circa mezzo secolo fa si riuscì quindi ad orientare l’economia verso fini di giustizia sociale e
benessere comune grazie ad un insieme coordinato di interventi pubblici interni al mercato.
OSPECA
MARIKA GUERRINI