Il Jobs Act è stato presentato al mondo da Matteo Renzi quando al governo c’era ancora Letta e la crisi era solo un’ipotesi non troppo probabile, ed è stato il suo primo passo nella sua nuova carriera da Presidente del Consiglio.
Possiamo quindi paragonare il Jobs Act ad “un codice del lavoro che semplifica e racchiuda tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero”.
Lo scopo principale del piano Jobs Act è ridare una spinta agli investimenti stranieri in Italia, per ottenere i risultati sperati si propone di combattere la burocrazia semplificando sia le norme del lavoro ma anche il sistema di forme contrattuali (al momento oltre 40), intervenendo sia sul lato del lavoratore (con gli ammortizzatori sociali per i disoccupati) sia dal lato delle imprese (riduzione del costo del lavoro). Gli interventi vengono focalizzati secondo un piano industriale specifico per tutti i settori: cultura, turismo, agricoltura e cibo, made in Italy, Ict, green economy, nuovo welfare ed edilizia. Il tutto con una tempistica progressiva entro il 2014.
Sul piano dei lavoratori si è intervenuti in maniera importante sulla disciplina del contratto a tempo indeterminato, con le disposizioni del Jobs Act è stato di fatto liberalizzata la stipula dei contratti a termine. Non è più necessario che il datore di lavoro indichi le ragioni che giustificano il termine (ossia la data di fine contratto). L’unica limitazione è nel limite del 20% dell’organico complessivo come numero totale di contratti a termine stipulati per le imprese con più di 5 dipendenti. Al di sotto di tale numero la stipula è libera, anche oltre il 20%. Mentre le proroghe consentite passano a 8 nei 36 mesi.
Il Jobs Act rende il contratto a termine stipulabile come un contratto a tempo indeterminato, senza la necessità di giustificarsi per l’opposizione di una data di fine contratto.
Se da un lato si deve pensare a chi il lavoro non ce l’ha, dall’altro non si può negare che gran parte del problema del mercato del lavoro italiano arriva dalle difficoltà a reinserirsi quando si perde il lavoro. Per questo ci si concentra verso gli ammortizzatori sociali, la volontà è quella di creare un assegno sociale universale a tutela di chi non ha il lavoro. Una sorta di paracadute che renda meno dolorosa l’uscita da un posto di lavoro e consente di guardare con maggior fiducia al futuro.
Questo assegno sociale presenta dei paletti da rispettare: chi usufruisce dell’assegno ha il dovere di seguire un corso di formazione e non può rifiutare più di un’offerta di lavoro, pena la sospensione dell’assegno. Il tutto gestito da un’Agenzia Unica Federale che coordini e indirizzi i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali.
Per il Jobs Act, se il lavoro e i giovani sono al centro del discorso, per il rilancio del Paese sono importanti anche le aziende, soprattutto le piccole e medie imprese (vero motore dell’Italia).
Il primo passo è il taglio del cuneo fiscale che rende oggi il costo del lavoro insostenibile. Si sono accennati possibili sgravi a favore delle aziende che assumo ma la proposta più perentoria riguarda la riduzione del 10% dei costi energetici sostenuti dalle imprese.
Un tema, quello della spesa energetica, molto sentito, visto che in Italia si vive in una cronica emergenza energetica e il fabbisogno viene soddisfatto dall’estero. Un problema, quello dei costi dell’energia, che inevitabilmente lascia indietro le aziende nostrane rispetto ai concorrenti europei.
Con il Jobs Act si lancia anche una chiara sfida: chi ha di più dovrà pagare di più, soprattutto se quella ricchezza non è produttiva per il Paese. Con ciò si fa direttamente riferimento a chi accumula ricchezza operando sul mercato finanziario; si vuole aumentare la tassazione sulle rendite secondo il principio “chi lavora paga di meno, chi si muove in ambito finanziario paga di più”. In particolare si propone l’aumento delle imposte sulle transazioni finanziarie, contestualmente alla riduzione del 10% dell’Irap delle imprese.
Il Jobs Act si focalizza sui problemi più urgenti del Paese pur inserendoli in una prospettiva più ampia, non focalizzandosi solo sulla questione del lavoro ma ampliando il discorso con aziende, questione e energetica e transazione finanziaria; ma nel testo mancano argomenti importanti, quali: sistema previdenziale (in riferimento soprattutto ai baby pensionati); donne che non lavorano o che vengono considerate professioniste di serie B; giovani laureati che fuggono e giovani non preparati allo sbaraglio nel mercato del lavoro. Non solo, perché se creare lavoro è importante, non è da meno migliorare la produttività del lavoro stesso, problema atavico nelle aziende nostrane come evidenziato dalle statistiche OCSE.
Dato il vero problema del sistema economico italiano: la carenza di una prospettiva a lungo termine che vada oltre gli interventi a breve termine che mettono in pace le categorie professionali ma non risolvono la crisi strutturale, il Jobs Act vuole essere qualcosa di complesso, parlando non solo di ciò che è necessario fare domani ma cosa è fondamentale fare per risolvere la questione strutturale.
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